Dittico Suor Angelica
Cavalleria rusticana
di Daniele Agiman
Ciascuno di noi vive lo spazio che gli è dato… ed ognuno è chiamato, come individuo e come membro di una comunità, a plasmare i luoghi vissuti ed abitati per renderli il più possibile luoghi di aggregazione, attraenti e coinvolgenti: luoghi aperti all’altro. Ma spesso, troppo spesso, i luoghi che abitiamo diventano luoghi chiusi, spazi dove non è possibile vivere la relazione ma solo subire una dolorosa condizione di isolamento…
Se dovessi dire cosa avvicina così tanto ed in maniera emozionalmente così forte (pur con linguaggi musicali e drammaturgici assai lontani) Cavalleria e Suor Angelica, non avrei dubbi: la scelta, da parte di Mascagni e Puccini, di rappresentare due luoghi, un paese ed un convento, dove relazioni costruttive e “vere” sono proprio impossibili…
Il convento di Suor Angelica non trasuda trascendenza, non è un luogo dove si rinuncia all’orizzontale (il mondano, il terrestre) per cercare di accedere al verticale (il divino); è piuttosto un luogo di ribellioni, piccole (suor Osmina che grida il suo “non è vero!”, Genovieffa e Dolcina, piccole fanciulle a cui restano semplici desideri, toccare un agnellino, mangiare un dolcetto….) e grandi (Suor Angelica, nascosta dentro una corazza di umiltà per nascondere il suo grande desiderio, avere notizie del figlio.. e, ancora, il suo gesto estremo: il suicidio).
Ma nelle mani sapienti di Puccini le categorie assolute, bene o male, morale o immorale, sono stravolte: la trasfigurazione finale dell’opera sembrerebbe raccontarci del perdono della peccatrice da parte di Dio, in un modo che rimanda al Faust ed a Goethe… a meno che la scena finale dell’opera non sia semplicemente una allucinazione della protagonista…
E il paese di Cavalleria? Una Sicilia che più claustrofobica non si può: luogo dove norme di comportamento, convenzioni, regole, diventano rigidità, omertà, nessuna possibilità di scegliere in piena libertà di coscienza; un condizionamento sociale che porta le persone a trasformarsi in maschere, sorta di marionette che non vivono la vita, ma la subiscono. Ed ecco perché la sensazione che ancora oggi ha chi assiste al capolavoro di Mascagni è soprattutto quella di personaggi senza speranza, schiacciati da un destino che li sovrasta e condiziona; da qui una sconvolgente vicinanza tra il capolavoro di Mascagni e la grande tradizione tragica di Eschilo e Sofocle: destino e necessità, Moira ed Ananke, guidano le vicende degli uomini.
Il coro, attonito e sgomento (altro grande punto di contatto tra tragedia classica e partitura di Mascagni) assiste allo svolgersi della vicenda dove nessuno è libero di scegliere il proprio destino; ma con una unica, fondamentale differenza, che rende cavalleria il primo vero capolavoro della modernità nella storia dell’opera, ben prima di Strauss o Berg: il Fato non è espressione della volontà del Divino, ma è il risultato delle scelte degli uomini, il luogo, appunto, ove convenzioni ed “usi” non lasciano spazio al libero arbitrio. Persone che sono chiamate a recitare ruoli, ed a nascondersi dietro una maschera: ce lo ha raccontato assai bene un grande siciliano, Pirandello…la maschera, troppo spesso, nasconde un mistero e, talvolta, l’orrore…
Introduzione al Dittico
di Gianmaria Aliverta
Un dittico particolare quello che andrà in scena a Novara: il massimo capolavoro di Mascagni, affiancato all’opera più raffinata e amata da Puccini.
L’idea è di farle vivere una nell’altra al fine di creare un’unica storia: lo spettatore verrà accompagnato in un viaggio tra passione, fede, pregiudizio e oppressione dal senso di colpa. Un viaggio alla scoperta della società matriarcale del Sud Italia, guidato da una forte personalità femminile in grado di decidere della vita e della morte di uomini e donne. È la donna infatti che decide chi deve vivere e chi deve essere punito, anche con la morte, specie se oltraggia il suo onore.
Suor Angelica e Cavalleria rusticana diventano quindi un’opera sola che – nello sfondo di una terra intrisa di religiosità cattolica che non di rado sfocia nella superstizione – narra la storia di figli strappati alle madri e poi uccisi (davvero o per finta) e di madri che si piegano al volere di donne più forti. Una storia forte che costringerà a porsi domande anche nei giorni successivi.
Lo spettacolo inizia con la vicenda di Suor Angelica per poi fare un balzo a sette anni prima, con Cavalleria rusticana, dove capiremo quali sono i peccati che Suor Angelica ha commesso e che è costretta a espiare rinchiudendosi in un convento di clausura, così come comprenderemo i motivi che le costeranno la sottrazione del figlio avuto da una relazione extra coniugale.
I personaggi delle due opere viaggiano sullo stesso filo narrativo, diventando i protagonisti della stessa storia. Come la Zia Principessa che scopriremo essere la stessa mamma Lucia, nonché Suor Angelica che nella mia lettura altri non è che la giovane Lola. Stesso parallelismo ho voluto per le scene (di cui parlerà più diffusamente lo scenografo Francesco Bondì): in Cavalleria vediamo frontalmente il sagrato della chiesa e il suo interno, in Suor Angelica la stessa chiesa vista da una prospettiva laterale diventa il convento di clausura.
Come a chiudere un cerchio, Suor Angelica sarà costretta ad espiare i suoi “peccati” nello stesso luogo in cui li ha commessi, proprio lì dove si è lasciata travolgere dalla passione.
La scena di Suor Angelica e
Cavalleria rusticana
di Francesco Bondì
Suor Angelica
La Chiesa ha sempre custodito – o nascosto – segreti che hanno disegnato inesorabilmente il destino degli uomini. Così la vicenda di Suor Angelica si snoda fra le trame delle grate che evocano l’intreccio narrativo del dramma che separa la protagonista dal mondo. Questo è uno spazio che racconta una vita nascosta che a sua volta nasconde un’altra vita: un segreto a cui è stato negato il sole della verità e che la Chiesa ha sapientemente ammantato di grazia. Così nasce l’idea di ambientare la vicenda di Suor Angelica in uno spazio chiuso e oppresso dallo sguardo vigile, e forse anche giudicante, dei santi Pietro e Paolo, vegliardi di un mondo che volge lo sguardo all’altro mondo e custodi di vite che, sembrano dire, possono raggiungere il mondo reale solo attraverso il loro canto.
Cavalleria rusticana
Lo sguardo e la prospettiva visiva si allargano in Cavalleria rusticana. La piazza, lo spazio sacro e la luce rappresentano rispettivamente la società, la famiglia religiosa e i valori morali. Tre ordini ascendenti scanditi dagli effetti di due delle tre virtù teologali che compaiono sulla scena: a sinistra la Carità e a destra la Fede.
La Fede evoca la fedeltà e la Carità evoca l’amore, inteso come passione cieca. La ricerca della verità, il dubbio del tradimento e l’incertezza dell’esistenza umana sono concetti che si annidano nelle pieghe dei velluti e nella tela della “Deposizione”, quest’ultima desunta dalla tradizione pasquale palermitana, e insieme attendono l’azione scenica della revelatio, in cui la macchina scenica barocca, nella retorica della meraviglia, restituisce da un lato un’immagine apologetica della Chiesa che incensa se stessa, dall’altro evoca il tentativo umano di dare una forma concreta al mistero della Resurrezione, estetizzando l’invisibile con l’esclusivo obiettivo di dominare una comunità contadina attraverso il potere manipolante e manipolato dell’immagine divina.